Scienza

La Terra ricicla il fondo dell'oceano in diamanti

La Terra ricicla il fondo dell'oceano in diamanti

I diamanti sul tuo dito sono molto probabilmente fatti di fondali marini riciclati e cucinati in profondità sotto la crosta terrestre.

Secondo una nuova ricerca, pubblicata su Science Advances, (1) condotta dai geoscienziati della Macquarie University a Sydney, in Australia, tracce di sale intrappolate in molti diamanti mostrano che le pietre sono formate da antichi fondali marini che sono stati sepolti in profondità sotto la crosta terrestre.

La maggior parte dei diamanti trovati sulla superficie terrestre sono formati in questo modo, altri sono creati dalla cristallizzazione di fondenti nel profondo del mantello terrestre.

Negli esperimenti che ricreano le pressioni estreme e le temperature trovate a 200 chilometri di profondità, il dottor Michael Förster, il professor Stephen Foley, il dottor Olivier Alard e i colleghi della Goethe Universität e Johannes Gutenberg Universität in Germania, hanno dimostrato che l'acqua marina nei sedimenti, dal fondo dell'oceano, reagisce nel modo giusto per produrre l'equilibrio di alcuni sali trovati nel diamante.

Lo studio pone una domanda di lunga data sulla formazione dei diamanti. A tal proposito il dottor Michael Förster asserisce: “c'era una teoria secondo cui i sali intrappolati all'interno dei diamanti provenivano dall'acqua di mare marina, ma non potevano essere testati. Le nostre ricerche hanno dimostrato che provenivano da sedimenti marini.”

I diamanti sono cristalli di carbonio che si formano sotto la crosta terrestre in parti molto antiche del mantello. Sono portati in superficie con le eruzioni vulcaniche tramite l'espulsione di un particolare tipo di magma chiamato kimberlite.

Barriere coralline: non c'è ritorno dal viaggio acido

Barriere coralline: non c'è ritorno dal viaggio acido

Un nuovo studio rileva che le barriere coralline sono minacciate dall'acidificazione degli oceani.

Lo studio, pubblicato recentemente su Nature Climate Change, (1) è stato condotto da ricercatori del Centro di eccellenza ARC per Coral Reef Studies (Coral CoE). I loro risultati suggeriscono che alcuni coralli e alghe coralline - il “collante” che tiene insieme le barriere coralline - non possono sopravvivere negli oceani che si sono acidificati a causa dei cambiamenti climatici.

“I risultati confermano la precedente ricerca sulle minacce di acidificazione degli oceani e sul danno, che questa acidità, può cagionare alle barriere coralline”, ha detto l'autore principale il dottor Steeve Comeau, (2) che presta la sua attività presso la sede della Sorbonne Université del CNRS Laboratoire d'Océanographie de Villefranche sur Mer in Francia.

Il professor Malcolm McCulloch, (3) del Coral CoE, presso l'Università del Western Australia, ha detto che i ricercatori hanno esaminato il fluido calcificante di quattro specie di corallo e due tipi di alghe coralline, per un periodo di un anno, constatando che gli effetti sul fluido calcificante sono stati rapidi e persistenti per tutto il periodo di controllo.

Il dottor Christopher Cornwall, (4) attivo presso la Victoria University di Wellington in Nuova Zelanda, sostiene che le alghe coralline cementano insieme le scogliere creando un ideale habitat per molte specie. Il calo delle alghe coralline potrebbe portare alla perdita di importanti specie marine che utilizzano le alghe come vivaio.

Nuova tecnica di imaging per studiare le cellule T

Nuova tecnica di imaging per studiare le cellule T

Grazie a una nuova tecnica di imaging sono state immortalato in un video l'addestramento delle cellule T prima che attuino la neutralizzazione di batteri e virus.

Per la prima volta, gli immunologi dell'università del Texas ad Austin hanno immortalato in un video ciò che accade quando le cellule T - responsabili della neutralizzazione di batteri e virus - si sottopongono a un tipo di programma di addestramento prima di attuare l'attacco a virus e batteri nel corpo. Una nuova tecnica di imaging che fa ben sperare gli scienziati per la lotta contro le patologie autoimmuni come il diabete di tipo 1.

Una delle più potenti armi del corpo umano contro molte malattie sono le cellule T, ma nelle persone con disturbi autoimmuni queste cellule distruggono anche le cellule normali che vengono scambiate per degli invasori. Questa disfunzione causa un attacco di parti del corpo in buona salute.

La professoressa Lauren I Ehrlich, (1) uno degli autori dello studio spiega: “Le cellule T hanno l'arduo compito di riconoscere e combattere tutti i diversi patogeni che incontriamo nel corso della nostra vita, evitando di attaccare il nostro stesso tessuto sano. Queste cellule maturano nel timo, un organo appena sopra il cuore, dove vengono come educate a non attaccare il corpo.”

La ricercatrice Lauren I Ehrlich e la postdottorato Jessica Lancaster hanno immortalato in un video (2) questo processo educativo in un timo (3) di topo. Esse hanno utilizzato un paio di potenti laser che sparano a brevi impulsi e scorrono attraverso una parte di tessuto vivo ogni 15 secondi per ricostruire le posizioni, i movimenti e la segnalazione intracellulare delle cellule. Le due ricercatrici hanno osservato che, mentre le cellule T si sviluppano, altre cellule nel timo le aiutano a incontrare tutti i tipi di proteine umane ordinarie che, in seguito, le cellule T dovranno ignorare per evitare di attaccare altre parti del corpo. Le due studiose hanno appreso nuove conoscenze su come diversi tipi di cellule lavorano insieme nel timo per eseguire i test di sicurezza e, nel caso in cui una cellula T fallisca, attivano l'autodistruzione.

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