Neurologia

Olfatto e patologie neurodegenerative

Olfatto - oltre a farci percepire gli stimoli odorosi e a consentirci di relazionarci con il mondo che ci circonda ha un impatto sulle relazioni umane

L'olfatto ci fa percepire gli stimoli odorosi e ci consente di relazionarci con il mondo che ci circonda.

Se non esistesse, la nostra vita sarebbe molto diversa. È un senso fondamentale per gli esseri umani, anche se spesso non ci rendiamo della sua importanza. L'olfatto, oltre a farci percepire gli stimoli odorosi e a consentirci di relazionarci con il mondo che ci circonda, ha infatti impatto sulle relazioni umane. “Fino agli anni '70, questo senso era considerato poco importante poiché nelle varie fasi dell'evoluzione dell'uomo la sua funzione si è ridotta, diversamente da quanto accaduto negli animali”, spiega Alessandro Tonacci, ricercatore dell'Istituto di fisologia clinica (Ifc) del Cnr di Pisa.

A spingerci a sottovalutarne l'importanza è anche il fatto che la perdita della funzione olfattiva ha impatto minore sulla qualità della vita rispetto a quella di altri sensi, come ad esempio la vista.

“Intorno agli anni '70 studi condotti negli Stati Uniti hanno invece dimostrato che esiste una correlazione tra la perdita o la diminuzione dell'olfatto e patologie neurodegenerative, in primis – ma non solo – Alzheimer e Parkinson”, spiega il ricercatore. “Ciò avviene in quanto alcune delle aree corticali nelle quali si verificano i primi episodi di morte cellulare dovuta a queste patologie sono coinvolte anche nel processing del segnale olfattivo rendendo, di fatto, la valutazione olfattiva un utile biomarcatore precoce di insorgenza della patologia. Nel tempo c'è stata quindi una sua rivalutazione e molte sono state le ricerche scientifiche in questo ambito, tanto che nel 2004 il Nobel per la Medicina è stato assegnato agli americani Richard Axel e Linda Buck per le loro ricerche sui recettori olfattivi e sul funzionamento del sistema olfattivo, che hanno permesso di spiegare i meccanismi che permettono di percepire 10.000 odori diversi e di collegarli alla memoria umana insieme alle emozioni che il nostro cervello lega a essi”.

La depressione invecchia il cervello

Una tecnica di scansione del cervello dimostra che la densità sinaptica, ovvero la quantità di connessioni, inizia a calare 10 anni prima nei depressi

Un gruppo di ricercatori della Yale University ha utilizzato una nuova tecnica di scansione cerebrale per dimostrare che la densità sinaptica, ovvero la quantità di connessioni nel cervello, inizia a calare 10 anni prima nelle persone depresse, a 40 anni d'età anziché a 50.

Questo potrebbe significare una precoce perdita di memoria, annebbiamento cerebrale, rallentamenti nel linguaggio e persino l'insorgenza di malattie legate all'età come l'Alzheimer.

La principale autrice dello studio, Irina Esterlis, (1) che ha presentato i risultati in un meeting dell'American Association for the Advancement of Science, (2) afferma che i risultati dello studio potrebbero avvicinarci a spiegare perché le donne, che hanno il doppio delle probabilità di soffrire di depressione, hanno il triplo del rischio di ammalarsi di Alzheimer rispetto agli uomini.

La scienziata aggiunge che lo studio potrebbe anche aiutarci a sviluppare nuovi farmaci mirati all'ippocampo, la regione del cervello interessata sia dalla depressione che dall'Alzheimer.

Lo studio è di piccole dimensioni, con sole 10 persone, ma i ricercatori affermano ora di avere le basi per organizzare uno studio su larga scala con molte più persone. “Prima non siamo stati mai in grado di misurare le sinapsi nelle persone viventi perché non avevamo uno strumento”, spiega Irina Esterlis. Il potenziale di questo nuovo e promettente metodo di imaging è significativo. I ricercatori pensano che con il tempo si puo' pensare di sottoporre le persone con depressione a screening per rilevare i segni dell'invecchiamento cerebrale che potrebbero trasformarsi in problemi più gravi.

“C'è molto che possiamo fare, abbiamo solo bisogno di più tempo”, avverte Esterlis. Il motivo per cui è stato così difficile vedere se la depressione invecchia il cervello negli umani è perché le scansioni cerebrali non possono vedere così tanto. Le scansioni MRI possono mappare le regioni del cervello, ma non possono osservare in diretta il flusso dei complessi e rapidi cambiamenti che avvengono costantemente.

Stimolati gli astrociti, le cellule del cervello a forma di stella

Gli astrociti, le cellule del cervello a forma di stella, possono essere eccitati con un campo elettrico applicato da un dispositivo organico

Dimostrato per la prima volta che gli astrociti, le cellule cerebrali a forma di stella finora considerate passive, possono essere eccitati con uno campo elettrico applicato da un dispositivo organico.

Questa forma di eccitazione è importante per il funzionamento dell’attività neuronale nella memoria e nell’apprendimento. Possibili ricadute per la cura di patologie come Alzheimer, Parkinson, Ictus ed Epilessia. Il lavoro condotto da Cnr Isof e Cnr-Ismn è pubblicato su Advanced Healthcare Materials.

Quando parliamo di cervello molti di noi pensano ai neuroni, eppure negli ultimi decenni è stato dimostrato che la classica visione neurone-centrica delle funzioni e disfunzioni cerebrali è stata ormai sorpassata. Infatti, ciò che rende diverso il nostro cervello da quello di altri mammiferi, non è il numero o la struttura dei neuroni, bensì quella di altre cellule, dette astrociti.

Gli astrociti, così denominati per la loro tipica morfologia stellata, sono stati a lungo considerati mero ‘collante’ che riempiva gli spazi tra neuroni. Sono definiti cellule non eccitabili perché non possono generare e propagare l’impulso bioelettrico nello stesso modo dei neuroni.

Un lavoro pubblicato sulla rivista Advanced Healthcare Materials (1) e coordinato da Valentina Benfenati dell’Istituto per la sintesi organica e la fotoreattività del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isof), in collaborazione con Michele Muccini e Stefano Toffanin dell’Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturati del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ismn), dimostra che anche gli astrociti, e non solo i neuroni, rispondono al campo elettrico applicato dal dispositivo organico, e che è possibile stimolare e modulare l’attività degli astrociti applicando un campo elettrico estremamente piccolo.

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