Crisi sistemica ecologica in Italia

La crisi ambientale dovuta all’impoverimento e alla degradazione dei territori si manifesta da numerose situazioni di conflittualità diffuse globalmente

Leggere le diverse crisi che si stanno manifestando nei nostri tempi come porzioni di una crisi sistemica che sta investendo il capitalismo è indispensabile

Questo vale a maggior ragione per la crisi ecologica, la cui manifestazione palese sono le numerose situazioni di conflittualità ambientale diffuse su tutto il globo; combattere per l’ambiente e per i territori, oggi, rappresenta la più anticapitalista delle battaglie: essi sono la sintomatica manifestazione degli effetti che il modello di crescita economica produce in termini ambientali e sociali. Basti guardare alle matrici della crisi ecologica e a quanto esse siano direttamente correlate agli assunti di base del capitalismo: la tendenza alla crescita vorace, la corsa all’accumulazione e allo sfruttamento di ogni tipo di risorsa senza guardare a quello di cui si avrà bisogno domani, per sopravvivere.

Possiamo definire “ambientale” un conflitto che vede la società civile, esclusa dai processi decisionali, opporsi a politiche basate sul sovrasfruttamento delle risorse e del territorio, attraverso pratiche di democrazia partecipativa, in difesa del loro territorio e dell’ambiente. Si tratta di manifestazioni essenziali e interessanti da studiare: innanzitutto sono diffusi a livello planetario, indice questo del fatto che appunto, quando parliamo di crisi ecologica, parliamo di una crisi di sistema. Un’attenzione a questa tipologia di conflitti, inoltre, è utile a rilevare i molteplici fattori di origine economica, politica, sociale, climatica, che hanno interagito tra loro ed assunto un ruolo centrale nell'insorgenza di nuove tipologie di conflitto territoriale. Essi consentono di comprendere tutte le categorie della crisi in un unico fenomeno: emblematico in questo caso è il caso del conflitto legato alle acciaierie ILVA di Taranto, dove la crisi ambientale ha origine da matrici diversificate ma correlate, di carattere sociale, occupazionale, sanitario ed economico.

Parliamo di conflitti ambientali in presenza di due particolari elementi: una riduzione quantitativa-qualitativa delle risorse ambientali disponibili e la presenza e l’organizzazione di resistenza da parte delle popolazioni locali dei territori interessati.

Le cause della riduzione possono essere molteplici: si può trattare di progetti di sfruttamento, produzione o smaltimento, come nel caso dell’imposizione di progetti estrattivi o produttivi come miniere, industrie, estrazioni petrolifere e simili, o di altri di produzione energetica come centrali a carbone, idroelettriche, nucleari ecc..

Ma può trattarsi anche di progetti di costruzione di infrastrutture come possono essere le grandi opere o di progetti legati allo smaltimento dei rifiuti come inceneritori, discariche o depositi di ogni sorta. Un conflitto ambientale può essere anche generato dal mancato intervento risolutorio ove necessario: la storia recente del nostro Paese è piena di situazioni di assenza di politiche di salvaguardia territoriale come quelle per rispondere al dissesto idrogeologico o quelle legate alla messa in sicurezza dei territori; allo stesso modo questo tipo di cause può manifestarsi nel mancato esercizio delle dovute attività di controllo in situazioni di criticità, come nel caso del monitoraggio delle zone a rischio, e di mancato o tardivo intervento in caso di calamità naturali o di mancata bonifica di zone contaminate. I conflitti ambientali, tuttavia, possono essere determinati anche da scelte politiche imposte alle popolazioni: infrastrutture militari, progetti di risanamento che finiscono per privatizzare aree territoriali, investimenti infrastrutturali, spesso in accordo con partner internazionali, e accordi politico commerciali.

Quali che siano le cause, gli ultimi anni hanno visto un insorgere irruento di questo tipo di conflittualità: in parte per l’emersione degli impatti di molti dei poli industriali inquinanti, che hanno promesso ricchezza ai territori ma che hanno contaminato vastissime aree senza che sul momento fosse percepibile, in parte per il progressivo esaurimento delle risorse naturali, sulle quali si era basato in maniera cieca e irrazionale il meccanismo di corsa alla crescita e all’accumulazione che ha messo in moto i due secoli passati.

In questo senso, quello che accade nel nostro Paese è particolarmente emblematico: la storia dello sviluppo industriale dell’Italia è una storia di contaminazione, a partire dal passaggio da un’economia basata sull’agricoltura a una basata sull’industria, e dalla conseguente nascita di poli industriali grandi e piccoli disseminati per lo Stivale. Guardando alla mappa dei nostri Siti di Interesse Nazionale per le Bonifiche è possibile vedere in controluce la storia del nostro sviluppo industriale: dall’industria bellica dei primi anni del Novecento a quella delle estrazioni petrolifere che ci ha accompagnato dal primo dopoguerra alla II Guerra Mondiale, per arrivare alla nascita dell’industria dei consumi di massa del Secondo Dopoguerra.

Lo Studio Epidemiologico Nazionale dei Territori e degli Insediamenti Esposti a Rischio di Inquinamento (SENTIERI), realizzato nel territorio di 44 Sin e curato dall'ISS, afferma che la popolazione che vive in prossimità dei SIN ha indici di mortalità e di incidenza di patologie oncologiche e altre malattie più alti rispetto alle medie regionali. Incrociando questi dati con quelli dei profili socioeconomici, scopriamo che Il 60% della popolazione dei SIN appartiene alle fasce più svantaggiate e che dei 5 milioni e mezzo di abitanti dei SIN, 1.562.519 vivono al nord del paese, 665.246 a centro Italia e ben 3.324.113 tra sud e isole. La mappa dei SIN, dunque, oltre a rappresentare una mappa della storia industriale del nostro Paese, è anche, in controluce, la cartina delle disuguaglianze della storia repubblicana: si pone ancora fortissima una questione meridionale; ancora una volta, all’arricchimento e allo sviluppo del Nord industriale corrisponde l’impoverimento e la degradazione del Sud e delle Isole, utilizzati come serbatoi di manodopera un lato, e come depositi di scarti e rifiuti dall’altro.

Questo dato, spesso definito di “razzismo ambientale”, ha una nozione di classe molto definita ed è assolutamente individuabile anche nei meccanismi di larga scala che riguardano l’intero Pianeta: il Nord si arricchisce sulle spalle (e sulle vite) del Sud, e anche all’interno dei Paesi del cosiddetto Nord, tuttavia, lo stesso meccanismo premia chi ha di più, e impoverisce ulteriormente e ammazza soltanto le fasce più deboli delle popolazioni. In questo senso, ancora una volta, i conflitti ambientali e la crisi ecologica che essi sottendono sono perfettamente deducibili e integrati nelle contraddizioni del modello di sviluppo cui facciamo riferimento, e il destino della crisi ecologica e di quello delle altre crisi (politiche, sociali, economiche, ecc.) risultano indissolubilmente intrecciati.

VIDEO: L'intervento di Rita Cantalino all'Università estiva di Attac 2018

Autrice: Rita Cantalino (associazione ASud) / Foto: WEB / Fonte: italia.attac.org (Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 36 di Settembre - Ottobre 2018: "Crisi: 10 anni bastano")