Ricerche

Miele di Manuka per curare le infezioni da fibrosi cistica

Miele di Manuka per curare le infezioni da fibrosi cistica

Secondo gli esperti dell'Università di Swansea, il miele di Manuka potrebbe fornire la chiave per un trattamento rivoluzionario destinato ai pazienti affetti da fibrosi cistica.

Grazie a una ricerca di un gruppo di ricercatori della Swansea University, (1) si potrebbe ottenere, dal miele di Manuka, la formula per creare una terapia destinata ai pazienti affetti da fibrosi cistica.

La dottoressa Rowena Jenkins (2) e il dottor Aled Roberts (3) hanno scoperto che l'uso del miele di Manuka potrebbe offrire un'alternativa antibiotica per il trattamento di infezioni respiratorie resistenti agli antimicrobici, in particolare i batteri mortali trovati nelle infezioni da fibrosi cistica. La ricerca è stata pubblicata dalla rivista Frontiers. (4)

Usando tessuto polmonare di maiali, gli esperti hanno trattato le infezioni batteriche cresciute imitando quelle osservate nei pazienti affetti da fibrosi cistica con miele di Manuka. I risultati hanno mostrato che era efficace nell'uccidere i batteri resistenti agli antimicrobici del 39% rispetto al 29% per gli antibiotici. Migliorando l'attività di alcuni antibiotici che non erano in grado di funzionare efficacemente da soli, il miele e gli antibiotici combinati uccidevano il 90% dei batteri testati.

La fibrosi cistica è una delle malattie ereditarie potenzialmente letali più comuni nel Regno Unito, con circa 10.400 persone sofferenti secondo il CF Trust. Una revisione del governo guidata da Lord Jim O'Neill ha anche evidenziato la minaccia della resistenza antimicrobica, stimando che un continuo aumento della resistenza entro il 2050 porterebbe a un esponenziale aumento dei decessi a causa di infezioni resistenti agli antimicrobici.

Livelli trascurabili di mercurio nelle acque minerali italiane

Livelli trascurabili di mercurio nelle acque minerali italiane

Pubblicato sulla rivista Chemosphere uno studio coordinato dall'Istituto per la dinamica dei processi ambientali del Cnr. La ricerca, con una tecnica analitica specifica per la determinazione del metallo contaminante, conferma i livelli trascurabili per la salute della popolazione.

L'Istituto per la dinamica dei processi ambientali del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Idpa) ha coordinato uno studio sulle concentrazioni di mercurio (Hg) nelle acque minerali naturali italiane in bottiglia. La ricerca "Ultra-trace determination of total mercury in Italian bottled waters" (determinazione di ultra-tracce di mercurio nelle acque in bottiglia italiane) è stata pubblicata sulla rivista Chemosphere, in collaborazione con l'Istituto di nanotecnologia (Cnr-Nanotec), l'Università della Calabria (Unical), le Università Sapienza di Roma, degli Studi di Ferrara, Ca' Foscari di Venezia e Magna Graecia di Catanzaro.

"Nel biennio 2014-2016 sono state raccolte e analizzate in laboratorio, con una tecnica analitica specifica per la determinazione del mercurio (Hg) in ultra-tracce, 244 acque confezionate in bottiglia di 164 marche, rappresentanti il 64% dell'intero mercato italiano. I dati raccolti forniscono informazioni fino ad oggi assenti, confermando i livelli trascurabili di Hg nelle acque in bottiglia italiane, circa mille volte inferiori rispetto al valore limite di 1 microgrammo per litro previsto dalla Direttiva Europea 2003/40/CE", spiega Massimiliano Vardè del Cnr-Idpa. "Il mercurio è uno dei contaminanti più dannosi e indesiderabili, in particolare nell'ambiente acquatico. L'esposizione ad esso, anche a basse dosi, induce effetti avversi sul sistema nervoso centrale del feto, del bambino e dell'adulto e provoca, inoltre, significativa tossicità renale ed epatica, diminuzione della fertilità, alterazioni del sistema immunitario e danni al sistema cardiovascolare".

Oltre alla valutazione della qualità dell'acqua rispetto all'elemento tossico, la ricerca ha fornito importanti indicazioni in merito all'origine del mercurio nelle acque sotterrane.

Moria di pulcinelle di mare registrata nel Mare di Bering

Moria di pulcinelle di mare registrata nel Mare di Bering

La moria delle pulcinelle di mare nel Mare di Bering può essere attribuita ai cambiamenti del cibo indotti dal clima.

Una importante moria di uccelli marini nel Mare di Bering potrebbe essere parzialmente attribuibile al cambiamento climatico. Gli uccelli sembravano morti per gli effetti della fame. Questo è quanto sostiene uno studio pubblicato dalla rivista PLOS ONE (1) di Timothy Jones del programma di scienze cittadine COASST presso l'Università di Washington e del team di Lauren Divine (2) della Aleut Community di St Paul Island Ecosystem Conservation Office.

I Puffini Trapuntati che crescono nel mare di Bering, al largo della costa dell'Alaska, si nutrono di pesci e invertebrati marini, che a loro volta si nutrono di plancton oceanico. L'innalzamento della temperatura del mare ha portato a importanti cambiamenti negli ecosistemi oceanici. Uno stato climatico che ha causato anche precedenti eventi di accentuata mortalità di uccelli marini. A partire dal 2014, l'aumento delle temperature atmosferiche e la diminuzione dei ghiacci invernali hanno causato una flessione delle prede ricche di nutrienti nel Mare di Bering, nonché a una migrazione verso nord di alcune specie. Questa tendenza ha causato, nella parte meridionale del mare, una sostanziale diminuzione delle risorse alimentari per le pulcinelle.

Nell'attuale studio, il team del dottor Timothy Jones (3) ha documentato, per un periodo di quattro mesi, un peggioramento della qualità della vita della pulcinella di mare e anche dell'Auklet crestato, sull'isola di St. Paul, una delle Pribilof Islands situate nel sud del Mare di Bering, a circa 480 km a est della terraferma. A partire da ottobre 2016, i membri della tribù e della comunità hanno recuperato oltre 350 carcasse in avanzato stato di decomposizione, per lo più adulti nel processo di muta. Questa moria è stata probabilmente causata da un fattore di stress nutrizionale durante il ciclo di vita degli animali.

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